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Treme

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Questo articolo è uscito sullo Straniero.

di Simone Caputo

“Trumpet bells ringing / Bass drum is swinging / As the trombone groans / And the big horn moans / And there’s a saxophone. / Down in the treme / Is me and my baby / We’re all going crazy / While jamming and having fun”. Con queste parole si chiude la sigla che accompagna i titoli di testa della serie tv statunitense Treme, trasmessa in dieci puntate, a partire dall’Aprile 2010 dalla HBO. La serie è ambientata a New Orleans nei mesi che seguirono le devastazioni provocate dall’uragano Katrina e dalla conseguente inondazione della città: “Tre mesi dopo” recita infatti la scritta che apre le immagini della prima puntata. La bellissima sigla, cantata dal vocalist di New Orleans John Bouttè, racconta già molto di quello che sarà l’intera serie, con le parole, la musica e soprattutto con le immagini: un giro di contrabbasso, uno stacco di batteria e un assolo di chitarra frullano come in un vortice nel giro di pochi secondi immagini in bianco e nero di una vecchia New Orleans e dell’uragano dell’estate del 2005; Bouttè inizia a cantare e con i titoli di testa compaiono molteplici inquadrature dei muri delle case rimaste in piedi dopo l’alluvione. Perché questo è rimasto di New Orleans: muri segnati dalle acque, case distrutte, foto scolorite ricordo del passato, abitanti sopravvissuti a guardare attraverso porte e finestre le proprie vite oramai irriconoscibili. Treme, è bene dichiararlo subito, è una serie bella, efficace, in certe momenti strabiliante. Un racconto schietto e corale su una città e il terribile evento che l’ha spazzata via: senza indugiare nel sentimentale, senza ricercare la lacrima, senza banalizzare le tremende colpe e incapacità politiche che stanno dietro e seguirono al disastro, senza cadere nel “falso” o nell’eccessivamente “rappresentativo”, senza dipingere cartoline.
Con un personaggio che fa da protagonista, da collante, da sezione ritmica, da luogo della memoria, da piacere per le orecchie: la musica della città, in tutte le sue forme, generi, colori, strumenti, volti. Il creatore di Treme è lo sceneggiatore David Simon, già autore per la HBO di due capolavori televisivi: il superbo affresco della città di Baltimora dipinto con The Wire e la cinica Generation Kill con la sua scioccante ricostruzione dell’occupazione in Iraq. Simon, con tutti i suoi co-sceneggiatori, punta il dito contro gli scandali dell’amministrazione Bush e le folli idee del neo-conservatorismo: le tre serie sono infatti accomunate dallo spirito di denuncia contro un governo che non si è solo macchiato di un’inqualificabile inettitudine, ma è mancato al primo dei suoi doveri: proteggere la vita dei suoi cittadini. La storia si ripete tremenda e puntuale: nella Baltimora di The Wire, serie dedicata a indagare i fallimenti di polizia, scuola e politica; nella lotta al crimine nel deserto iracheno di Generation Kill, dove l’avanguardia dell’esercito statunitense veniva spedita in guerra accompagnata dalla disorganizzazione dei vertici, carenza di dispositivi bellici e scarsità di approvvigionamenti; nella New Orleans di Treme, emblema dell’ottusità e del disprezzo dimostrati da un governo federale impegnato a fare altro – Bush in vacanza, la Rice a comprare scarpe da Ferragamo – mentre la povera gente era ammassata nel Superdome e sulle autostrade senza acqua e senza cibo, i malati morivano e i cadaveri galleggiavano sulle acque.
Perché Katrina è stata una catastrofe annunciata e non prevenuta: già nel 1927 e nel 1965 uragani e esondazioni del Mississipi avevano abbondantemente dimostrato che gli argini costruiti con sufficienza non erano in grado di evitare straripamenti e morti. E un evento atmosferico largamente sottovalutato ha così dimezzato la popolazione della parrocchia di New Orleans e l’intero delta del Mississipi. Katrina ha spazzato via una delle più grandi città d’America in soli tre giorni, tra il 29 e il 31 agosto 2005: più di mille morti, un altissimo numero di dispersi, centinaia di migliaia di sfollati, più di 80 miliardi di dollari di danni. Treme, in dieci episodi, mostra attraverso gli occhi di chi ha deciso di non abbandonare la città, il post-uragano, i giorni della solitudine, i giorni dell’ospitalità presso parenti e amici, i giorni degli oltraggi della burocrazia, delle assicurazioni e delle speculazioni edilizie, i giorni della depressione.
Ma la vera forza di Treme non sta nell’essere denuncia contro un fallimento, atto d’accusa contro l’amministrazione Bush. Il suo sorprendente valore è nella capacità attraverso la costruzione di alcune storie che si fanno coro, di raccontare una città intera, il suo presente, la storia che le sta alle spalle: c’è chi non ha acqua calda, chi cerca un fratello disperso, chi accusa il governo federale di aver fallito causando una catastrofe, chi ritorna in città per trovare un lavoro trascinando con se sua figlia, chi dopotutto non può davvero lamentarsi, chi suona per soldi, chi suona e basta convinto di andare avanti per sempre. La pura critica politica resta sullo sfondo; eppure è lì, a ricordarci di chi sono le colpe. Lontani da qualsiasi tentazione facilona alla Michael Moore, David Simon e gli autori di Treme hanno voluto anzitutto narrare: un’umanità intricata, una storia complessa, la musica, i luoghi comuni del turismo, la cucina e le sue particolarità, gli scomparsi e gli arrestati, l’architettura e le case, il processo di centrificazione dei quartieri a seguito della ricostruzione, le roulotte di emergenza della Fema, le distinzioni razziali, i blog e i loro attacchi alla politica inetta, le parate delle Second Line, la chiusura delle scuole, la violenza della polizia, la differenza fra chi ha perso qualcosa e chi ha perso tutto, le famiglie divise, le fantastiche atmosfere del Mardi Gras, i rituali degli “indiani” del Mississippi. Ha infatti detto Simon a proposito della serie: “Non stiamo cercando di raccontare una storia criminale o politica. Si tratta di una storia sulla cultura e su come la cultura urbana americana determini il nostro modo di vivere. New Orleans ha una cultura unica e straordinaria, ma deriva dalle stesse forze che caratterizzano la società americana: immigrazione, integrazione e non-integrazione, razzismo e post razzismo. Cos’è che ci rende americani? La cosa che abbiamo senza alcun dubbio donato al mondo è la musica afro-americana”. Treme non è, infatti, un nome scelto a caso: è un quartiere di New Orleans, poco raccomandabile a dar retta alle guide turistiche, confinante a ovest col più famoso e turistico French Quarter, e vera patria della musica e della cucina di New Orleans. La musica è onnipresente nelle dieci puntate della serie, così come lo è nella vita reale degli abitanti della città; musicisti sono alcuni dei personaggi di fiction, le innumerevoli figure del sottobosco musicale che compaiono e quelle più note che partecipano agli episodi, da Alain Toussaint a Dr John, da Elvis Costello ai vari Jon Cleary and The Absolute Monster Gentlemen, Steve Earle, Kermit Ruffins; perfino alcuni degli stessi attori, come Wendell Pierce, Steve Zahn e Lucia Micarelli, sono musicisti. Non c’è puntata in cui non si senta suonare una Second Line, un gruppo di buskers, una band in un locale, o la Treme Brass Band accompagnare un rito funebre con i suoi ottoni e i suoi canti. Il numero di musiche, canzoni, spezzoni proposti nelle dieci puntate è impressionante: sono forse più di duecento. Come impressionante è il patrimonio musicale utilizzato: Jelly Roll Morton, Stan Getz, Pete Fountain, Professor Longhair, Bob French, Johnny Adams, Django Reinhart, Toumani Diabate, Nat King Cole, Beausoleil, Jon Cleary, Little Richards, Ellis Marsalis, Beau Jocque, Ernia K. Doe, Miles Davis, Irma Thomas, Davell Crawford, James Booker, The Meters, Don Vappie, Germaine Bazzle, Scott Joplin, Fats Domino, Louis Armstrong, la Rebirth Brass Band. Treme è un atto di amore verso una città, ma anche un atto d’amore verso la sua cultura, verso la musica, il jazz e i suoi musicisti in particolar modo. Treme riesce in una doppia difficile impresa: raccontare sottotono l’ansia esistenziale di una città per il nuovo e l’ignoto, e rappresentare la cultura di luogo, la sua musica, i suoi musicisti attraverso lo schermo.
Proprio come in ‘Round Midnight, bellissimo film di Tavernier, una delle poche pellicole capaci di portare il jazz sullo schermo, gli autori di Treme mettono al centro i luoghi, i suoni, le persone: non importa che non accada nulla di che; quel che importa sono le suggestioni, le atmosfere, il ritmo, il semplice racconto.
La cura con cui i singoli episodi sono sceneggiati, la regia abile e dedicata ai particolari, un montaggio lontano da qualsiasi funambolismo e debitore dei ritmi e dei suoni della città, un cast di attori di livello, da John Goodman a Rob Brown a Kim Dickens, sono invidiabili e fanno pensare con una certa tristezza alle svilenti serie televisive nostrane, all’incapacità dei canali italiane di raccontare attraverso la tv e la fiction il presente, di andare oltre le ricostruzioni di maniera, di realizzare prodotti liberi e credibili lontani dalla propaganda. L’elenco di quanto si produce o si trasmette in questi mesi in Italia e che finisce sugli schermi di Rai e Mediaset è impietoso: Ho sposato uno sbirro, Capri, Amore Proibito, Rinomata pasticceria Mileto, Edda Ciano, Il peccato e la vergogna. Come impietoso è il confronto con quanto la sola HBO ha prodotto e sta producendo in questi anni: The Sopranos, The Wire, Six Feet Under, Generation Killer, Treme, Boardwalk Empire, John Adams, True Blood. E non potrebbe essere altrimenti se a capo delle società che producono fiction in Italia ci sono nomi quali quelli, tra gli altri, di Luca Barbareschi, Giorgio Gori, Claudia Mori.
“Ain’t the river or the wind to blame / ‘cause everybody around here knows / nothing holding back Pontchartrain / ‘cept for prayer and as the promises go. / We’s carrying on digging our graves / and solid marble above the ground. / Maybe our bones will wash away / but this city will never drown”.
Così recitano gli ultimi versi della ballata This city di Steve Earle che chiude la prima stagione: “forse l’acqua porterà via le nostre ossa, ma questa città non potrà mai affogare”. Alla fine delle dieci puntate non può che restare in chi ha visto Treme un senso di forte disgusto: perché disgusto è l’unica parola che si può usare per un’amministrazione federale che ha lasciato morire dei propri cittadini, che ha speculato sulle loro disgrazie, che li ha dispersi in quaranta stati senza ridargli una città. E tutto perché? Perché, come esclamò l’emozionato rapper Kanye West durante un’importante raccolta fondi televisiva per New Orleans, semplicemente “George Bush se ne frega della gente di colore!”. In una delle puntate, John Goodman, che interpreta il ruolo di un professore, legge in classe ai suoi alunni un piccolo brano di Lafcadio Hearn su New Orleans: “Le cose non sono belle qui [è il 1880 l’anno cui Hearn si riferisce], la città si sta disfacendo in cenere. È stata sepolta da una colata lavica di tasse, frodi e mala amministrazione. Le sue condizioni sono così pessime, che quando ne scrivo, nessuno crede stia dicendo la verità. Ma è meglio vivere qui tra stracci e ceneri che possedere l’intero stato dell’Ohio”; poi aggiunge: “Lafcadio Hearn non fu il primo a innamorarsi di New Orleans; certamente non fu l’ultimo. Le sue farse rappresentano alcuni dei peggiori eccessi e affronti americani. Ma, giorno per giorno, anno per anno, New Orleans evoca anche momenti di chiarezza artistica e urbana trascendenza che sono il meglio in cui il popolo americano possa sperare. Questo se, noi che ne siamo testimoni, non siamo troppo spossati, troppo esauriti e troppo stupidi per riconoscerli per quel che sono”.


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